Attesa (Ph O. Villari)

Paolo Rossi, il fotografo del selvatico (Francesco Cassissa)

Introduzione

Il collegamento immediato tra gli aggettivi selvatico e spontaneo mi attraversa senza chiedere il permesso, mi folgora, si delinea come un’associazione ovvia.

Nel periodo attuale di esagerazione della cultura di massa, di omologazione dei bisogni, dei consumi e dei sentimenti, diviene artificioso il rapporto che sviluppiamo nei confronti di noi stessi, degli altri e del territorio in cui viviamo.

Prendiamo parte ad una realtà altra, fatta di immagini che rincorriamo come chimere e che portano solamente in un luogo: un non luogo.

Perdiamo ogni giorno di più il legame che ci identifica come umani indebolendo il rapporto con il territorio, e diventiamo sempre di più estranei a noi stessi, incapaci di riconoscere le nostre tracce.

Tra le cause di questo indebolimento si collocano le conseguenze della gestione del territorio e del rapporto che si ha con esso.

La diffusione di nuove tecnologie e l’avvento delle rivoluzioni industriali e agricole, ha modificato il rapporto dell’uomo con il territorio e mutato la geografia e distribuzione degli elementi degli ecosistemi e del paesaggio.

Nel caso della Liguria, aspra e montuosa, nel corso dell’ultimo secolo abbiamo assistito ad uno spopolamento da parte dell’uomo di quelle aree oggi raggruppate sotto il nome di “entroterra” e “alture”.

Questa declassazione di origine gestionale, vede le porzioni di territorio in questione attraversare un periodo di riposo dalla presenza e manipolazione da parte dell’uomo, favorendo così il ripopolamento di quelle specie selvatiche prima allontanate per predazione o competizione territoriale.

Trovo che l’abbandono da parte dell’uomo di queste aree per la ricerca della più alta forma di civilizzazione ed evoluzione tecnologica, coincida con l’allontanamento da se stessi e dalla parte più selvatica e naturale che ci caratterizza.

Ed è qui che si produce una esternalità curiosa, quasi sotto forma di tacita rivincita, che permette al selvatico, quindi agli animali che in passato vivevano le campagne, i fiumi, i boschi, di riappropriarsi dei propri habitat naturali senza essere disturbati dall’azione spesso alterante dell’essere umano.

In questo quadro di considerazioni ho conosciuto Paolo Rossi, un fotografo del selvatico, cioè di quelle specie animali autoctone che popolano la Liguria come il lupo o il gatto sarvægo.

Con il suo documentario FELIS – Gatto sarvægo, sottolinea il concetto di rivalsa del selvatico su una società in espansione sempre più distante dalle sue origini.

Forse essere selvatici oggi si presenta come la soluzione in grado di mantenere le proprie radici, rafforzando il rapporto con il circostante, con il proprio patrimonio territoriale ed identità.

Forse essere selvatici oggi corrisponde ad essere civilizzati, a fare scelte consapevoli.

Ho avuto il piacere di fargli qualche domanda, di conoscerci meglio e di discutere insieme del suo modo di vedere il mondo, di lavorare e vivere la comunità.

Lupa Beigua per Blog Paolo Rossi

Paolo, un fotografo rubato all’agricoltura.

Parlami di te, della tua passione e del legame con la “ tua Liguria”.

“Sono nato da una famiglia di contadini e operai.

Il rapporto con la terra all’interno della nostra famiglia c’è sempre stato, ed è cambiato con il passare del tempo assieme ai sistemi di approvvigionamento.

Non lavoravo la terra, ma visitavo i boschi ispirato dalla curiosità e animato dalle fantasie d’amore verso le popolazioni indigene, i Nativi Americani e per i grandi animali liberi, selvaggi, ai miei occhi mitologici.

Il rapporto con il selvatico, inteso come mondo animale, era diverso ai tempi dei miei nonni. Di esemplari ce n’erano pochi, e spesso venivano cacciati e mangiati. Monti e campagne erano setacciate per difesa e sostentamento, così da favorire un lento spopolamento delle specie.

Oggi le cose sono diverse: nella mia epoca il selvatico ripopola non solo i monti, ma le campagne e in alcuni casi i centri abitati.

Gli animali che da bambino sapevo reali ma appartenenti ad un mondo quasi onirico sono arrivati, tornano a casa, ripopolano il territorio.

E’ l’inizio di un sogno che diventa realtà, la storia di un bambino che diventa ragazzo.”

Il lupo, voglio vedere un lupo!

“Crescendo approfondisco il mondo del selvatico e mi appassiono al rapporto che il popolo indigeno ha con il lupo.

Sfaccettato, profondo, articolato, aperto.

Sono aspetti che mi hanno permesso di considerare l’animale nel suo ampio ventaglio di significati e di cogliere tutte le sfumature che successivamente avrei raccontato con la macchina fotografica.

Sfumature che rendono l’animale un’espressione unica del territorio, e la fotografia si inserisce come strumento da campo versatile, capace di adattarsi all’ambiente come fa il soggetto dell’indagine, e come faccio io per poterlo incontrare.

Diventerà chiaro con il passare del tempo che la frequentazione del territorio mi avrebbe aiutato nella scoperta di un metodo capace non solo di poter incontrare un lupo, ma di creare un approccio in grado di coinvolgermi in un discorso più ampio.

Fotografare gli animali selvatici autoctoni, provenienti esclusivamente dal territorio ligure ed in totale libertà d’azione, non è solo un lavoro, ma un impegno civile utile alla tutela, salvaguardia e rappresentazione del patrimonio naturale locale, capace di generare esternalità propedeutiche ad un approccio sostenibile verso il territorio.”

 

Paolo Rossi, fotografo e divulgatore consapevole.

Ricerca, studio e lunghe attese mi appaiono come processi organici, che rispettano i tempi “naturali” delle specie che fotografi.

Raccontami del tuo metodo. Cosa lo caratterizza?

 

“Fotografare richiede molto tempo. Per trovare i luoghi adatti ci vogliono anche anni.

Ci vuole tempo nell’organizzare l’appostamento: la fototrappola, dove metterla? Come metterla? Come rapportarsi con le proprie tracce?

Il selvatico se ti sente scappa.

Molti fotografi cercano la soluzione più facile e certa: usano esche, preparano un capanno dove appostarsi, attirano l’animale e lo “catturano” nell’immagine.

Il metodo che adotto io invece, prevede fallimenti continui poiché imperfetto. Ma è proprio questo aspetto che riconduce l’uomo alla sua dimensione di umano e non alla perfezione del suo metodo.

Questo mi permette di trovare l’animale, e non di portarlo a me.

Dalla traccia, al luogo, fino alla conoscenza approfondita di quel dato animale. Del suo carattere, della sua cultura, dei comportamenti comuni e di quelli che si manifestano per ogni ambiente in cui si trova l’animale, influenzato a sua volta dai vari fattori che condizionano il territorio: dai fenomeni antropici come caccia, proprietà private, ricerca dei funghi, tagli abusivi, escursionismo, a l’evoluzione ecosistemica dell’ambiente naturale per forze indipendenti dall’uomo.

Ho capito che bisogna guardare all’ambiente naturale come lo guarda l’animale.”

 

I tuoi lavori sfociano in momenti di divulgazione attraverso la creazione di libri, film, documentari che si possono trovare sul tuo sito web e sulle piattaforme social o in libreria. Inoltre crei discussioni in spazi di aggregazione sociale.

Si può dire che hai imparato a riprodurre i giusti segnali che dal bosco alla piazza esternano sensibilità.

Dai vita ad un corridoio ecologico, sei d’accordo?

 

Trovarsi allo stesso tavolo con cacciatori, agricoltori, turisti, scienziati, amministratori, cioè mettere a confronto posizioni anche opposte per creare discussione e dare vita ad una dimensione di dialogo è parte del processo progettuale e dell’organizzazione del lavoro, ed è una decisione che prendo in maniera consapevole.

Questo lavoro mi dà da vivere, ma lo faccio anche perché crea un confronto culturale capace da una parte di rafforzare la tutela e considerazione del territorio e delle specie che lo abitano, dall’altra permette a me di imparare a vedere l’animale da diversi punti di vista, di poterlo considerare nel tempo e nello spazio confrontandomi con persone di diverse età, modi di vedere e pensare.

Inoltre nell’ambito del confronto accademico attenua una rigidità scientifica un pò dilagante, relativa al metodo categorico che rende difficile comprendere la geolocalizzazione territoriale dell’animale studiato o ricercato nel suo ambiente.

Dall’oratorio, al cinema, al pub, all’ambiente un pò più istituzionalizzato, fare divulgazione diventa per me inoltre un modo per esprimere gratitudine a chi mi sostiene e apprezza la mia creatività. Non solo, ma anche per sensibilizzare le persone che hanno una visione distorta del tema.

Infine anche per meravigliarle, perché io ancora mi stupisco e sogno come quando ero bambino.

Essere selvatico oggi vuol dire essere civile.”

 

Paolo Rossi

prossifoto@gmail.com

www.paorossi.it

www.instagram.com/paolo.rossi_wolves/

I libri sono sfogliabili alla libreria indipendente “L’amico ritrovato” di Via Luccoli a Genova.

0 commenti

Lascia un Commento

Want to join the discussion?
Feel free to contribute!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *