Come preservare la Biodiversità attraverso le nostre scelte di vita quotidiana.
Cowspiracy
L’impatto devastante e “determinante” degli allevamenti zootecnici sul pianeta e i motivi per i quali le grandi associazioni ambientaliste non parlano/combattono il problema
Il Sale della Terra
Storia e Attivismo di un grandissimo fotografo del nostro tempo
Sorpresa: ho ripescato stralci di vecchiotti ma sempre attuali articoli dell’Internazionale
Tratto da Internazionale 23 maggio 2008
Qui pianeta Terra di Michael Pollan
Il virus del cambiamento (…) I motivi per non fare nulla sono molti e apparentemente convincenti, almeno per chi ha la mentalità dell’energia a basso costo. Vorrei suggerire alcuni motivi da mettere sull’altro piatto della bilancia. Se facciamo qualcosa, diamo l’esempio ad altri. Se un numero sufficiente di persone cominciasse a fare qualcosa, ognuna influenzerebbe altre persone e si verificherebbe una reazione a catena di comportamenti diversi. Il mercato dei prodotti biologici e delle tecnologie alternative crescerebbe. Molti prenderebbero coscienza del problema, forse cambierebbero. Nascerebbero nuovi imperativi morali e nuovi tabù: forse guidare un Suv, mangiare una bistecca da un chilo o illuminare una casa come fosse un aeroporto sarebbero considerati comportamenti incoscienti. Non possedere troppe cose potrebbe diventare di moda. E i pionieri del nuovo stile di vita avrebbero il diritto morale di chiedere anche agli altri – persone, industrie, paesi – di cambiare i loro comportamenti. Tutto questo, in teoria, potrebbe succedere. Si tratta di un cambiamento sociale di tipo virale, cioè non lineare e non prevedibile. Chissà, forse il virus arriverà fino a Chongging e contagerà anche “il mio gemello cattivo cinese”. O forse succederà il contrario, e tra qualche anno l’ambientalismo sarà passato di moda. Scegliere di vivere in modo più ecologico è solo una scommessa, niente di più e niente di meno. Ma forse, anche se le probabilità di vincerla sono poche, dovremmo accettarla tutti. A volte bisogna agire come se le nostre azioni potessero fare una qualche differenza, anche se non ne siamo certi. Dopotutto, è proprio questo che è successo nella Cecoslovacchi e nella Polonia comuniste, quando gli uomini come Vaclav Havel e Adam Michnik hanno deciso di vivere “come se” la loro fosse un società libera. Quella scommessa improbabile creò un piccolo spazio di libertà, che con il tempo si allargò fino a provocare il crollo di tutto il blocco orientale. Secondo Vaclav Havel, di fronte alla crisi ambientale la gente dovrebbe cominciare a comportarsi “come se dovesse vivere su questa Terra per sempre e un giorno dovesse rendere conto delle condizioni in cui la lascia”. Sono d’accordo, ma vorrei dare un suggerimento meno astratto e scoraggiante: trovate una cosa da fare nella vostra vita che non sia spendere né votare, che forse sconvolgerà il mondo come un virus o forse no, ma che sia reale e specifica (oltre che simbolica) e che, qualunque cosa succeda, abbia i suoi vantaggi. Potreste decidere di rinunciare alla carne, cosa che ridurrebbe di un quarto la vostra impronta di carbonio. Oppure per un giorno alla settimana, astenetevi completamente da qualsiasi attività economica: niente shopping, niente automobile, niente elettronica.
Tratto da Internazionale del 28 novembre 2008
Sulla via del disastro di Herman Daly
(…) Limite oltrepassato – Le dimensioni dell’economia globale si stanno avvicinando al limite massimo di sopportazione del pianeta. Man mano che gli oceani si svuotano di pesci, le foreste si riducono e i gas serra nell’atmosfera aumentano, i costi ambientali e sociali di un’ulteriore crescita sono destinati a intensificarsi fino al punto in cui il prezzo che pagheremo per ogni punto extra di crescita sarà maggiore dei benefici che ne ricaviamo. Anzi, ci sono elementi per sostenere che abbiamo già oltrepassato quel limite, almeno in paesi ricchi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Fino quando il nostro sistema economico si baserà sulla rincorsa alla crescita, andremo incontro a un disastro ambientale ed economico. Per evitarlo, dobbiamo spostare l’obiettivo dalla crescita quantitativa allo sviluppo qualitativo e porre limiti rigorosi alla velocità con cui consumiamo le risorse della Terra. Il valore dei beni prodotti può comunque aumentare, ma le dimensioni fisiche dell’economia devono essere contenute entro un livello che il pianeta sia in grado di sostenere. Dopo duecento anni di crescita è difficile immaginare come possa essere un’economia controllata, ma non vuol dire necessariamente che ci congeleremo al buio sotto il giogo di una tirannia comunista. Gran parte dei cambiamenti possono essere introdotti gradualmente.
Meglio vivere senza stress di Kate Soper (…) sempre più persone di rendono conto che forse la vita non consiste solo nel lavorare per spendere, e provano a semplificarla e a rivedere i loro valori e desideri. Se passassimo in massa a un’economia in cui si lavora meno, il numero di persone, merci e informazioni costrette a circolare sarebbe minore e questo ridurrebbe anche il consumo di risorse e le emissioni di carbonio. Le persone avrebbero più tempo da dedicare a se stesse e alla famiglia. E in una crisi economica come quella attuale i politici potrebbero ottenere più collaborazione e rispetto da parte dell’elettorato se si impegnassero su questi temi.
Giunto nel grande Altipiano abruzzese noto dei corvi imperiali, sembrano in corteggiamento. A volte seguono i lupi per approfittare dei loro “avanzi” di cibo (Corvus Corax).
Resti di predazione, feci e le loro impronte fresche sul fango “di una pista di cervo”: i lupi sono presenti in questa zona e forse, mi stanno osservando la nuca.
Non mi resta che prepararmi un giaciglio comodo e affacciato su una grande radura, sperare che il vento sia con me e attendere i principi delle tenebre (Canis lupus italicus).
E dopo giorni e ore di attesa … eccolo, è un maschio adulto parzialmente affetto da rogna (forse favorita da quest’inverno caldo-umido): è quasi buio e il suo trotto è molto rapido: sembra una danza selvaggia e forse per lui, la caccia è appena iniziata!
L’Abruzzo è una delle zone italiane con il patrimonio di biodiversità più ricco. Infatti in questa regione i lupi (e non solo!) sono numerosi. Il Parco Nazionale di Lazio Abruzzo e Molise tra gli altri, è famoso per le sue straordinarie faggete.
Il drammatico inverno anomalo causato dal surriscaldamento globale, permette perlomeno di vedere integralmente questi straordinari faggi vetusti (Fagus sylvatica).
La cementificazione nelle aree verdi di tutta Italia è impressionante. Anche nei Comuni delle zone di Parco ciò avviene (foto sotto 2016 Opi – Parco Nazionale Lazio Abruzzo e Molise), anche se in modo più circoscritto e subdolo.
A survivor population of wild colonies of European honeybees in the northeastern United States: investigating its genetic structure
Una popolazione di colonie selvagge di api europee sopravvissuta negli Stati Uniti nord-orientali: indagando sulla sua struttura genetica
Thomas D. Seeley, David R. Tarpy, Sean R. Griffin, Angela Carcione & Deborah A. Delaney
Traduzione di Alberto Pastorino
(…) I risultati indicano che la popolazione all’interno della foresta sia quasi certamente autosufficiente, senza essere mantenuta da flussi dalle colonie allevate nella zona circostante.
Due prove principali: la prima è che nelle circostanze le colonie allevate sono solo due.
La densità delle colonie selvatiche era di 1/km2, quindi su un’area di 200 km2 c’erano approssimativamente 200 colonie selvatiche e 40 domestiche.
Inoltre le 22 colonie dell’apiario 1 sono rimaste solo nell’estate 2011 perché nell’autunno hanno subito danni da parte di un orso nero (…)
Articolo completo e in lingua originale: http://link.springer.com/article/10.1007/s13592-015-0355-0
Una parte dell’articolo:
Una popolazione sopravvissuta di colonie selvatiche di ape europea negli Stati Uniti nord-orientali: investigazione della sua struttura genetica
Apidologie Marzo 2015
Thomas D. Seeley, David R. Tarpy, Sean R. Griffin, Angela Carcione, Deborah A. Delaney
Abstract – Esiste una convinzione diffusa che le colonie selvatiche di ape europea siano state eradicate in Europa e in Nord America, uccise dai virus diffusi dall’acaro ectoparassita introdotto Varroa destructor. In realtà, comunque, diverse popolazione di colonie selvatiche di ape mellifera in Europa e N america hanno persistito a dispetto dell’esposizione alla Varroa. Per favorire la comprensione di come questo sia accaduto, noi abbiamo testato se le api in una di queste popolazioni di colonie selvatiche – quelle che vivono nella e intorno la Arnot Forest (NY, USA) – siano geneticamente distinte dalle api della più vicine colonie gestite. Abbiamo trovato che le api della Arnot Forest fossero geneticamente distinte dai due apiari entro 6 km dalla foresta. Evidentemente, la popolazione della Arnot Forest è auto-sufficiente. Questi risultati indicano che se ad una popolazione chiusa di colonie di api è permesso di vivere naturalmente, essa svilupperà un relazione bilanciata con i suoi agenti di malattia. Infatti, è probabile che diventi ben adattata al suo ambiente locale per intero. Noi indichiamo quattro vie per modificare le pratiche di apicoltura per aiutare le api a vivere con una salute maggiore.
Introduzione
Si crede ritiene comunemente che le popolazioni che si auto-sostengono di colonie selvatiche di ape europea non esistano più in Europa e N. America e che ogni colonia selvatica di ape europea ancora rimasta in quelle regioni venga da sciami scappati dagli alveari degli apicoltori (Moritz et al. 2007; Potts er al 2010). Una ragione per questa convinzione è che molte parti d’Europa hanno vissuto un intensa deforestazione per creare terreni agricoli, così che rimangono pochi vecchi alberi con larghe cavità – i siti di nidificazione naturali delle api (Oleska et al. 2013). Anche nelle foreste naturali preservate in Europa, dove le cavità da nido per le api dovrebbero essere molte, studi recenti hanno mostrato che la densità totale di colonie sembra combaciare con la densità delle colonie gestite (Moritz et al. 2007; Jaffè et al. 2009). Questo indica che le colonie selvatiche siano rare persino in queste aree naturali. Presumibilmente, questo è dovuto a parassiti e patogeni, in particolare Varroadestructor e i virus associati. Diversi studi hanno mostrato che se una colonia gestita di api europee in Europa o N. America non è trattata per la V. destructor, allora in un anno o due la popolazione di acari infestanti esploderà e la colonia morirà (Korpela et al. 1992; Kraus and Page 1995a; Fries et al. 2006).
E’ ragionevole aspettarsi che, per questo motivo, le popolazione di colonie di api che vivono in natura, e perciò non stiano ricevendo trattamenti di controllo degli acari, sarebbero scomparse. Questa previsione sembra essere supportata da uno studio di colonie selvatiche nella California centrale condotta nel 1990-94, poco dopo l’arrivo della V. destructor, il quale ha scoperto che questa popolazione di colonie era stata quasi eradicata (Kraus and Page 1995b). Allo stesso modo, una popolazione di colonie selvatiche in Arizona era stata decimata tra il 1990 e il 1998 quando era stata invasa per la prima volta dall’acaro tracheale (?) (Acarapis woodi) e poi dalla V. destructor (Loper et al. 2006). Inoltre, uno studio condotto in Louisiana nel 1991-2006 scoprì un ripido calo del tasso di catture di sciami e nella longevità degli sciami poco dopo l’arrivo di V. destructor nel 1993 (Villa et al. 2008).
Recentemente, comunque, sono emersi diversi report dall’Europa e N america riguardo a popolazioni di colonie selvatiche di api europee che hanno persistito per almeno 10 anni nonostante fossero infestate con V destructor: Svezia (Fries et al. 2006), France (Le Conte et al. 2007), e gli USA (Seeley 2007). C’è anche il fatto che le api europee hanno coesistito con Varroa nel estremo oriente della Russia fin dalla metà dell’800 (Rinderer et al. 2001). L’evoluzione di una relazione ospite-parassits bilanciata tra le api e i loro parassiti è in realtà attesa dove molte colonie vivono in natura, per questa impostazione ecologica, dovrebbe esserci una forte selezione naturale per le api che possiedano resistenza alle malattie. Inoltre, poiché le colonie di api che vivono in natura in Europa e N america sono ampiamente distanziate tra loro (Galton 1971; Seeley 2007), ci potrebbe essere poco movimento di api tra le colonie, così ci sarebbe poca trasmissione orizzontale di patogeni e parassiti tra le colonie selvatiche. Se la trasmissione verticale (dai genitori alla prole) di agenti di malattia è la regola tra le colonie selvatiche di api, allora dovrebbe esserci selezione per l’assenza di virulenza nei patogeni e nei parassiti che vivono in queste colonie (Fries and Camazine 2001; Schmid-Hempel 2011).
Una popolazione di colonie selvatiche di api europee che sta persistendo nonostante le infestazioni di V destructor vive nella (e intorno) la Arnot Forest nella parte centrale dello Stato di New York. Il primo monitoraggio delle colonie che vivono in questa riserva per la ricerca è stato fatto nel 1978 (Visscher and Seeley 1982), più di 10 anni prima dell’arrivo della V. destructor nello Stato di NY, e un secondo monitoraggio è stato fatto nel 2002 (Seeley 2007), circa 10 anni dopo l’arrivo di questi acari nella regione. Sorprendentemente, i due censimenti produssero essenzialmente le stesse stime del numero di colonie nella foresta: 1978: 18 colonie; 2002, 16 colonie (vedi sotto). Nel 2003, le colonie della Arnot Forest vennero testate per l’infestazione di V. destructor catturando sciami nella foresta con alveari come esche e poi ispezionando le colonie catturate alla ricerca di acari. Tutte erano infestate con V. destructor, ma le loro popolazioni di acari non crescono ad alti livelli nella tarda estate (Seeley 2007). Gli studi sulla dinamica di popolazione di V destructor nelle colonie selvatiche di api in Svezia (Gotland) e Francia (Avignon) hanno trovato a loro volta bassi tassi di crescita della popolazione di acari e corrispondenti bassi carichi di acari (Fries et al. 2006; Le Conte et al 2007).
Le popolazioni di api europee selvatiche che sopravvivono in Europa e N America sono importanti perché comprendere la genetica ed i fattori ecologici che permettono loro di persistere potrebbero rivelare nuovi meccanismi di resistenza per futuri programmi di allevamento di api e potrebbero indicare cambiamenti vantaggiosi nelle pratiche di apicoltura. Un primo passo critico per esplorare queste possibilità è determinare se ogni data popolazione di colonie di api selvatiche si auto-sostenga realmente o stia semplicemente persistendo tramite l’immigrazione di sciami scappati da colonie di api gestite. Noi ci siamo posti questa domanda per le api della Arnot Forest determinando se le colonie selvatiche nella e intorno la foresta fossero geneticamente distinte dalle colonie selvatiche gestite più vicine fuori dalla foresta. Se così fosse, allora ci sarebbe una forte evidenza che questa popolazione sia realmente sopravvivendo da sola.
Materiali e metodi
2.1 Sito di studio
Abbiamo condotto il nostro studio entro l’area circolare (8 km di raggio) di 200 km2 di territorio, al cui centro si trova l’Arnot Forest, una riserva a fini di ricerca di 17 km2 di proprietà della Cornell University. Quest’ampia area di studio è situata in una regione accidentata, elevata (310 – 620 m ??? questa sarebbe di quota?) nel sud della contea di Tompkins e nel nord delle contee di Chemung e Schuyler, NY, USA (42° 17′ N, 76° 39′ W) (vedi la Figura 1). Essa è in prevalenza coperta di foreste (82% basato su analisi GIS) e diffusamente abitata (2.30 case/km2, sulla base delle mappe dell’US Geological Survey). La copertura vegetale della Arnot Forest è principalmente (96%) foresta che varia da stadi di foresta antica a foreste mature di legno tenero e duro (see fig 3 in Odell et al. 1980). Il territorio che circonda la foresta, che include le unite Newfield e Cliffside State Forests, è forestato in modo simile, essendo stato protetto dalla Stato di NY, o abbandonato dall’agricoltura (o entrambi) negli ultimi 100 anni.
2.2 Campionamento delle api operaie dalle colonie selvatiche e dalle gestite
In luglio e agosto 2011, abbiamo localizzato le colonie selvatiche di api che vivono nella parti nordorientale, centrale e sudorientale dell’Arnot Forest usando la tecnica della bee-lining (allineamento di api lett.) (Visscher and Seeley 1989). Noi abbiamo iniziato ogni ricerca di una colonia catturando in una “bee box” approssimativamente 10 operaie dai fiori di una singola radura della foresta, fornendo alla api catturate sciroppo di zucchero (2.0 mol/L) in un favo all’interno del box per le api, e poi rilasciando le api dopo che si erano caricate di sciroppo di zucchero. Dopo essere volate a casa, alcune api sono ritornate alla cassetta per raccogliere più cibo, e poi alcune di queste api hanno reclutato altre api portandole alla nostra ricca fonte di cibo. IN seguito, noi abbiamo marcato (con marcature colorate individualmente identificabili) 10-20 delle api che visitavano il pettine, a quel punto, abbiamo iniziato a misurare la loro direzione di scomparsa e i loro tempi di ritorno, per stimare la distanza e la direzione dal loro nido. Una volta ottenuta questa informazione abbiamo intrappolato circa 10 di queste api all’interno della cassetta, abbiamo spostato il tutto 100-200 m fino ad un’altra radura nella direzione dell’alveare, e rilasciato le api in modo che potessero continuare a foraggiarsi alla cassetta, ma ora nel nuovo sito. Abbiamo continuato in questo modo, passo a passo, fino alla posizione dell’alveare. Quando ci siamo avvicinati e abbiamo avuto centinaia di api dalla colonia che visitavano eccitate la cassetta, abbiamo raccolto un campione di circa 100 api (tutte operaie) in etanolo al 95%. Noi siamo sicuri di aver localizzato la maggior parte, se non tutte, le colonie nella regione della Arnot Forest che abbiamo monitorato, perché alla fine le linee di api (inteso come metodo, con direzione di scomparsa delle marcate) che abbiamo iniziato da svariate radure in queste regioni puntavano costantemente verso colonie che avevamo già localizzato. La figura 2 in Seeley (2007) illustra questo processo di monitoraggio a saturazione.
A luglio e agosto 2011, abbiamo cercato colonie gestite di colonie di api che vivono fuori dalla Arnot Forest. Abbiamo ristretto la nostra ricerca a questa regione perché gli sciami raramente si disperdono su distanza maggiori di 3 km (Lindauer 1995; seeley and Morse 1977) e i fuchi (in inglese si chiamano drones) raramente volano per più di 6 km per accoppiarsi con una regina (Ruttner and Ruttner 1966, 1972), quindi è improbabile che ci sia stato un forte flusso genico materno (tramite sciami) o paterno (tramite fuchi) nella Arnot Forest dalle colonie gestite situate a più di 6 km di distanza. Abbiamo cercato colonie gestite in quattro modi: (1) Abbiamo contattato il club locale di apicultura (Finger Lakes Beekeepers), (2) Abbiamo parlato con i due apicultori commerciali situati entro 30 km dalla foresta /Tremblay Apiaries, Spencer, NY, and Beeman Apiaries, Owego, NY), (3) Abbiamo guidato lentamente lungo tutte le strade entro 6 km dalla foresta, e (4) abbiamo studiato delle foto aeree (Google Earth). Abbiamo trovato solo due apiari (da qui in avanti riferiti come apiario 1 e 2), entrambi appartenenti allo stesso apiculture. Abbiamo raccolto approssimativamente 100 api, conservate in etanolo al 95%, da ciascuna delle 10 colonie di entrambi gli apiari, che contenevano 22 e 24 colonie. Poiché abbiamo cercato apiari in maniera esaustiva entro la nostra area di studio di 200 km2, usando quattro diversi metodi, siamo sicuri che i due apiari trovati fossero gli unici presenti entro l’area di studio.
2.3 DNA analyses
2.3.1. DNA extraction
Abbiamo fatto estrazioni separate di DNA di quattro api operaie per ciascuna delle 10 colonie in ciascun gruppo (Arnot Forest, apiario 1 e apiario 2), per cui 40 api totali per ciascun gruppo e 120 in tutto. Le zampe posteriori di ciascuna ape sono state amputate, poste in un tubo per microcentrifugazione, sottoposte ad una serie di tamponi, e centrifugate per ottenere la lisi delle celle e rilasciare il DNA (protocollo per Qiagen Dneasy Blood and Tissue Kit). Ogni estratto è stato conservato a – 80 ° C.
2.3.2. Microsatellites
Abbiamo sottoposto le quattro estrazioni di DNA da ciascuna colonia a PCR a 12 loci microsatellitari variabili: A24, A28, A79, A88, A107, Ap43, Ap66, Ap81, AC006, B124 (Estoup et al 1995; Garnery et al. 1992; Solignac et al. 2003), e HB-THE-03 e HB-THE-04 (Shaibi et al. 2008), usando le condizioni di reazione precedentemente riportate. Il volume finale della reazione per campione era circa 10 μL e conteneva 5 μ L di PCR Master Mix (Promega, Madison, WI), 1.0 – 2.5 μ L di primer dye-labeled fluorescente, 0.9 L di acqua senza nucleasi, e 2 L di estratto di DNA. Ogni estrazione è stata amplificata per un ciclo a 95° per 7 min; poi 30 cicli a 95°C per 30s, 54°C per 30s, e 72°C per 30s; alla fine un’estensione di 72°C per 60 minuti. Abbiamo effettuato l’amplificazione in un sequenziatore automatico Applied Biosystems 3730 e assegnato un punteggio alla dimensione dei frammenti di microsatellite utilizzando GeneMapper.
2.3.3. Profili genetici
Usando una varietà di software di analisi, abbiamo eseguito quattro analisi indipendenti per ciascun gruppo di api (A. F., apiario 1 e 2); ogni analisi era basata sui profili genetici di 10 api differenti (delle 40 processate per ciascun gruppo) in ciascun gruppo. Primo, abbiamo usato HP-Rare (Kalinowski 2005) per calcolare il numero medio di alleli per locus, il numero di alleli privati, la ricchezza allelica, e l’eterozigoità attesa. Secondo, abbiamo utilizzato GENEPOP versione 4.0 (Raymond and Rousset 1995; Rousset 2008) per cercare gli scostamenti dall’equilibrio di Hardy-Weinberg, lo squilibrio dal linkage genotipico, e differenziazione genetica. Terzo, abbiamo usato GENETIX versione 4.04 (Belkhir et al. 2002) per eseguire un analisi di corrispondenza fattoriale. In conclusione, abbiamo determinato le frequenze alleliche e le frequenze dei singoli loci per ogni gruppo utilizzando GENETIX, e abbiamo usato FSTAT (Goudet 2001) per ottenere quattro stime della Fst (distanza genetica) per ciascuna coppia di gruppi.
2.3.4. DNA Mitocondriale
Abbiamo usato gli stessi estratti di DNA da ciascuna colonia per determinare l’antichità della linea materna. La regione intergenica tra i geni COI e COII del DNA mitocondriale è stata amplificata usando la PCR e i primer E2 (5′ – GGCAGATA – AGTGCATTG – 3′) E H2 (5′ – CAATATCATTGAT-GACC – 3′) seguendo il protocollo seguito da Garnery et al. (1992).
Da qui solo sintesi
Discussione
I risultati indicano che la popolazione al’interno della foresta sia quasi certamente autosufficiente, senza essere mantenuta da flussi dalle colonie allevate nella zona circostante.
Due prove principali: la prima è che nelle circostanze le colonie allevate sono solo due.
La densità delle colonie selvatiche era di 1/km2, quindi su un’area di 200 km2 c’erano approssimativamente 200 colonie selvatiche e 40 domestiche.
Inoltre le 22 colonie dell’apiario 1 sono rimaste solo nell’estate 2011 perché nell’autunno hanno subito danni da parte di un orso nero.
Quindi il rapporto tra allevate e selvatiche cala a 20/220 = 9%. Quindi le colonie domestiche producono solo una piccola parte di sciami ogni anno.
Il secondo tipo di prova è ancora più robusto, in quanto sono state trovate differenze genetiche sostanziali tra le colonie nella Foresta e quelle allevate. Prova di un ridotto input genetico da parte delle allevate nei confronti delle colonie selvatiche.
Questa scoperta rende molto interessante lo studio delle colonie selvatiche per comprendere come abbiano raggiunto una coesistenza stabile con i loro parassiti e patogeni. Risolvere questo mistero è molto importante in questo momento, quando molti apicoltori in Europa e N America dipendono dal trattamento delle loro api con antibiotici o pesticidi. Questo approccio, comunque, non è sostenibile perché porta all’evoluzione di resistenza da parte di parassiti e patogeni (Evans, 2003), può portare alla contaminazione nei prodotto delle api (Karazafiris et al. 2008) e può avere effetti negativi sulle api stesse (Burley et al. 2008).
La sopravvivenza delle api della foresta indica una forte selezione naturale nei confronti di api resistenti alla malattie, o di parassiti e patogeni poco aggressivi o di entrambi i fenomeni.
Questa selezione naturale è molto più probabile in un ambiente naturale, a causa dei trattamenti con antibiotici e pesticidi che impediscono la selezione di colonie resistenti alla malattia. Il sovraffollamento degli apiari è un altro fattore importante nel facilitare la trasmissione dei patogeni e parassiti.
In condizioni naturali la trasmissione è principalmente verticale, tra colonie madri a figlie (sciami), mentre in apicoltura la trasmissione può essere orizzontale tra colonie diverse, tramite comportamenti di spostamento di individui o furti tra colonie (Pfeiffer and Crailsheim 1998; Seeley and Smith in stampa). Per lo stesso motivo i patogeni in condizioni naturali si evolvono per essere virulenti in modo da permettere alle api di sciamare e trasmettersi così alla generazione successiva.
Sono stati tentati esperimenti di selezione artificiale, ma non sembra si siano raggiunti gli stessi risultati della selezione naturale.
In Francia e Svezia alcuni studi hanno dimostrato che il successo riproduttivo degli acari nelle colonie selvatiche era circa il 30 % inferiore rispetto alle colonie domestiche (Locke e Fries 2011; Locke et al. 2012). Curiosamente non c’era evidenza di una pulizia reciproca maggiore, che è la strategia utilizzata dall’ospite originario del parassita, l’Apis cerana.
Non si è potuto capire se la riduzione del successo riproduttivo fosse dovuta a maggior resistenza degli ospiti, minor resistenza dei parassiti o entrambe le cose.
Anche i fattori ambientali potrebbero aiutare le colonie selvatiche nella foresta.
Per esempio in uno studio intorno a Ithaca (New York), le cavità degli alberi in cui vivevano le colonie erano 25-50% inferiori in volume rispetto agli alveari artificiali (Seeley and Morse 1976). Perciò la dimensione della nidiata, il numero di api adulte, nidiata di operaie e di fuchi erano molto più ridotte rispetto alle colonie allevate.
Poiché gli acari si riproducono nelle celle delle nidiate, e di preferenza in quelle dei fuchi, il numero minore di celle potrebbe limitare il successo riproduttivo degli acari fornendo meno opportunità spaziali di riproduzione.
Questo spiegherebbe la caratteristica trovata nelle colonie sopravvissute colonie dell’isola Gotland in Svezia: il numero di operai e di fuchi erano rispettivamente metà e 1/10 rispetto alle colonie di controllo (colonie tipiche attaccate da V. destructor in Svezia). (Locke and Fries 2011). Un’altra conseguenza delle cavità piccole è la frequenza di sciamatura, che può limitare lo sviluppo di varroa. Il 40-70 % delle operaie lascia l’alveare durante una sciamatura e poiché circa il 50 % degli acari sono su adulti significa che una colonia perde il 20 – 35% degli acari adulti ogni volta che avviene una sciamatura.
Poiché una colonia può avere molti sciami nel periodo di sciamatura, la popolazione di acari si può ridurre molto. Oltre a questo la sciamatura può dare il via ad un periodo di intesa rimozione di acari poiché per 1- 3 settimane non ci sono nidiate da allevare nella colonia. Questo periodo è dovuto al tempo necessario alla nuova regina per svilupparsi come un adulto, uccidere le sue rivali, accoppiarsi e iniziare a deporre le uova. Durante questo periodo senza larve gli acari né possono riprodursi né possono nascondersi in celle contenenti pupe, così soffrono di una decrescita del tasso di nascite e perciò forse un aumento di tasso di mortalità, essendo vulnerabili ai morsi delle api e rimosse (intese come pulite via, groomed) dal corpo degli ospiti.
Lo studio dimostra la sopravvivenza indipendente di colonie selvatiche di api europee negli USA, anche se non sembrano colonie originate dalle prime scappate ai coloni nel 1700 (quelle erano scure, provenienti dall’area europea a N delle Alpi).
L’autosufficienza di queste colonie indica l’inefficacia e il danno provocato dalle pratiche di apicoltura contro la V. destructor sulle colonie stesse, che favoriscono il mantenersi della letale espansione dei virus trasmessi dagli acari.
Quattro pratiche sembrano essere dannose:
1) trattamenti di controllo degli acari, che impediscono o limitano la selezione di api resistenti agli acari
2) Apiari affollati che favoriscono la trasmissione orizzontale dei parassiti e patogeni
3) Gestire le colonie in modo che siano innaturalmente grandi, con alto tasso di produzione di miele e ridotta frequenza di sciamatura
4)Spostamento delle colonie tra vari luoghi, che causa forte flusso genico il quale impedisce la selezione naturale, alterando le frequenze alleliche in popolazioni chiuse, e causa anche l’espansione rapida dei patogeni.
Queste pratiche probabilmente stanno impedendo l’azione della selezione naturale se api e parassiti, così come sui patogeni trasmessi dagli acari.
Gli apicoltori stanno anche probabilmente alterando l’adattamento genetico delle api al clima e alle stagioni dell’ambiente locale, riducendo ancora di più la vitalità delle colonie (Hatjima et al. 2014).
Più lavoro è necessario per testare queste idee, ma sembra probabile che permettendo ad una popolazione di colonie di api di vivere naturalmente senza interventi esterni questa evolverà una relazione bilanciata con gli agenti della malattia, e il suo ambiente come un solo insieme.
In merito ai due avvistamenti di lupo in libertà di questi mesi:
Non si tratta di comportamenti anomali da parte del lupo infatti, il lupo segue le sue prede (Cinghiali e Caprioli ad esempio) le quali tendono a stazionare nei fondovalle durante il periodo invernale. Per di più alcuni lupi, da buoni predatori opportunisti , hanno imparato a sfruttare le barriere architettoniche dell’uomo (recinti, guard rail, palizzate,ecc) per intrappolare e predare con successo gli ungulati.
Perché gli avvistamenti aumentano? Semplicemente perché il lupo “sta meglio” di un tempo in liguria e perché molte sue prede sono in espansione e in aumento (Daino ad esempio). Per di più la tecnologia (fotocamere nel cellulare) ha trasformato semplici osservazioni di qualche anno fa in vere e proprie “prove fotografiche” utili a documentare il suo NATURALE ritorno o meglio la sua naturale e preziosa presenza.
Martino Terrone (testi) – Paolo Rossi (foto lavori contestuali al rifacimento del secondo lotto)
Quando Paolo mi telefonò la scorsa settimana, mi chiese di scrivere un articolo che parlasse dei lavori di rifacimento del II lotto del torrente Bisagno1, in relazione alle foto che aveva scattato. Devo ironicamente ringraziarlo perché è un argomento assai spinoso, sul quale è facile cadere in fraintendimenti o gravi omissioni e banalità dal punto di vista tecnico.
Mi spiego meglio. Da sempre, ma in particolare dopo gli eventi alluvionali 2011 e 2014, nella popolazione genovese è nato un parere chiaro su come, dove e in quali tempi si dovessero realizzare i lavori sopra citati. -Chi è a favore dello scopertura del Bisagno, nell’intento di ripristinare la fisionomia che il torrente aveva prima dell’epoca fascista. -Chi pensa ad un abbassamento del letto mediante asportazione del sedimento -Chi spera in una sopra-elevazione degli argini -Chi, individuata la responsabilità nella vegetazione riparia, suggerisce di rimuovere i tronchi e di estirpare l’erba. Tutto giusto.
L’unica obiezione è questa: si pensa che siano soluzioni definitive e specifiche? Così come esiste fra i geologi una massima (che in questo contesto faccio mia): il mestiere delle montagne è franare, al contempo è estremamente importante stabilire una certezza: gli eventi alluvionali si ripresenteranno con più frequenza e più violenza.
Da questo assioma partiamo. Questo articolo non ha la pretesa di imporre una soluzione definitiva, ma di fornire alcuni spunti. Fra questi spero che ve ne siano alcuni inediti o poco conosciuti.
Partiamo dal tema principale: asportazione del sedimento e rimozione della flora riparia. L’idea alla base di questa soluzione è quella di togliere materiale dal fiume nel tratto antecedente la copertura del Bisagno consentendo un abbassamento del letto e quindi un aumento della sezione idraulica, ovvero “la porta” dove passa il flusso d’acqua. Secondo un breve ragionamento, se aumento lo sfogo del Bisagno, esso avrà molte meno probabilità di esondare. Tuttavia è necessario considerare il corso d’acqua come un sistema naturale che cerca sempre il suo equilibrio: si potrebbe anche sostenere il mestiere dei fiumi è crearsi spazio. Occorre una profonda e specifica conoscenza di questo sistema, perché ogni torrente si differenzia dall’altro in funzione del proprio profilo di equilibrio2. Con questo termine si intende la capacità di erosione e deposizione del sedimento su tutta l’asta fluviale: è la sua impronta digitale. Maggiore è la massa che viene tolta, maggiore sarà l’attività del corso d’acqua per ripristinarla. Per riequilibrarsi porterà a valle ancora più sedimento in virtù dell’incremento (artificiale) di pendenza
Aggiungo anche una complicazione. Come ci ricordava il Dott. Stefano Brighenti, le piante hanno un effetto frenante, parimenti lo è il sedimento. Anche nei confronti di se stesso. Esiste un fenomeno definito corazzamento3: le granulometrie più grossolane (ciottoli) possono in alveo depositarsi e stratificarsi sulle ghiaie e le sabbie, creando appunto una corazza (armour in inglese), che le protegge dal dilavamento delle acque. Se questo strato viene rimosso, è ovvio che il processo di erosione-deposizione aumenta perché una maggiore quantità di sabbia e ghiaia verrà asportata.
Ora, se compariamo il Bisagno –torrente- con il Magra4 –fiume- ci accorgiamo dell’abisso fra una condizione idraulica di canale e un ambiente naturale dove alterazioni ecologiche possono determinare effettivamente cambiamenti a livello di deposizione nel breve-medio periodo, tanto più che il lavori del II lotto a Genova sono limitati ed agiscono su un tratto quasi totalmente urbanizzato.
Allora se esiste questa differenza, possiamo stare tranquilli oppure è sbagliato il dragaggio del greto? In linea di massima è corretta come operazione. Ma non bisogna eccedere nell’altro senso: una escavazione troppo repentina oggi, comprometterebbe la dinamica deposizionale futura in un già delicato contesto.
È tanto vero questo discorso, però, se corroborato con una buona dose di senso pratico, e cioè la necessità di rimuovere con una cadenza annuale sia i sedimenti che gli sfalci o tronchi, ma soprattutto i rifiuti domestici accumulati nel corso degli anni e le carcasse (ebbene sì!) di auto trasportate dalle alluvioni passate. In poche parole: manutenzione continua, mobilitando piccole quantità. Ciò garantisce la pulizia, la sicurezza e l’ammortamento dei costi.
Ma anche questo non è sufficiente. Per capire la specificità di un corso d’acqua, è necessario agire anche sulle parti del Bisagno rimaste ancora “inalterate” dall’urbanizzazione. Si deve guardare a monte, nei quartieri di Quezzi, Staglieno, Molassana, Prato, Davagna, fin dove nasce il nostro torrente. Ragionare a scala di Bacino I lavori di mitigazione del rischio geo-idrologico dovrebbero essere dimensionati in sua funzione. Uso il condizionale perché attualmente i lavori sono troppo frammentari e a compartimenti stagni. Essi mancano di una visione di insieme, così come contemplata dai Piani di Bacino, spesso disattesi o dilazionati nel tempo.
Cito il caso emblematico di Prato Casarile5 (o Prati Casalini) nel quartiere di Molassana, ( vi sfido se ne avete già sentito parlare: nessuno media recentemente se ne è occupato, tranne un articoletto6 del 2005) Questa spianata erbosa vicino al Torrente Geirato (affluente del Bisagno), non è altro che un pianoro di 45˙000 m3 facente parte di una paleofrana molto più grande (circa 10˙000˙000 m3). La particolarità è che Prato Casarile diventa un lago di sbarramento quando piove intensamente In altri termini è una diga che trattiene l’acqua. In futuro questa paleofrana, con eventi simili al 2011/14, si potrebbe riattivare e il suo franamento riversare un’onda spaventosa simile ad un piccolo Vajont. Già nel 1970 ci furono porzioni che cedettero e proprio per questo si rimediò attraverso dei muri di contenimento che allo stato attuale non sono quasi più in esercizio.
A parte questo esempio eclatante, la causa maggiore del nostro rischio geo-idrologico è rappresentato dai piccoli e numerosissimi abusi edilizi incontrollati. La coalescenza dei quali io definisco “ Piccola Speculazione Edilizia” A differenza della sorella maggiore, realizzata a partire dagli anni ’60, essa è occulta e parcellizzata a tal punto da sfuggire al catasto o a qualsiasi banca dati. Gli alvei deviati, i rii tombati, i muri eretti hanno reso il suolo ancor più impermeabile di quello che la cementificazione selvaggia del “Boom Economico” aveva compiuto. Con l’aggravante che è stata realizzata in tempi in cui la normativa ambientale era già esistente. La somma dei suoi effetti crea degli scenari del tutto imprevedibili, perché in mancanza di dati reali, ogni modello a scala di bacino è falsato.
Quando si parla di cementificazione la soluzione è molto complicata e non risiede di certo nell’abbattere tout-court i palazzi. Sarebbe, nel breve termine, stanziare invece i soldi per una manutenzione del territorio più efficace, (si veda gli esempi di Prato Casarile, i torrenti Geirato, Veilino, Ferreggiano, la parte alta dello stesso Bisagno) far rispettare la normativa d’attuazione dei Piani di Bacino e quella contenuta nel nuovo Piano Urbanistico Comunale 2015, il quale prevede, tra l’altro, di garantire una permeabilità del proprio appezzamento di terreno pari al 70% Nel lungo periodo, forse, sarebbe opportuno che la classe politica di concerto con la parte tecnica proponesse un piano cinquantennale di demolizione, intervenendo dapprima sulle case sfitte e organizzando una ricostruzione più razionale per il nostro territorio. Sorvolando su valutazioni appassionanti e di ampio respiro, eccessive per un articolo così breve, si possono suggerire alcune buone norme che il cittadino dovrebbe compiere per la propria incolumità e quella dei propri beni. Bisognerebbe rendere obbligatoria la certificazione del rischio idrogeologico nei codici identificativi degli edifici (la carta di identità di un palazzo), da questo documento discenderebbe tutta una serie di obbligazioni: isolare cantine, bloccare porte secondarie, piombare grate qualora si trovino al di sotto del battente d’acqua. Attivare, cioè, tutta una serie di azioni che evitano la propagazione dell’acqua in punti che altrimenti non si sarebbero allagati.
In molte documentazioni- video7 sulle alluvioni del 2011/14 (e ricorderei anche quella di Sestri Ponente nel 2010), l’esondazione ha letteralmente bypassato gli ostacoli, entrando da una porta ed uscendo dal retro. Comportamenti più noti ma altamente pericolosi sono infine quelli che riguardano la popolazione durante l’evento alluvionale, uno fra tutti il rituale del motorino o dell’auto spostata e parcheggiata altrove quando il livello dell’acqua arriva all’altezza del ginocchio. Da parte del Comune, invece si auspicherebbe che nelle zone inondabili entro le 24h dall’evento si decidesse di vietare il posteggio. Divieto che non per obbligo, ma per senso civico, deve essere rispettato.
Tutto ciò è parte di una procedura di mitigazione del rischio chiamata accettazione8 (acceptance ). Si badi che non è un atteggiamento fatalista e passivo, ma una vera disciplina e se automatizzata dalla popolazione ne garantisce l’incolumità fisica
In conclusione, ho elencato aspetti eterogenei che a mio avviso devono essere presi in considerazione quando si parla di un sistema naturale così complesso come un bacino idrografico Liquidare il problema risolvendolo con la sola rimozione della vegetazione e del sedimento, è un lavoro fatto a metà. È di primaria importanza che tutti i tecnici che lavorano a scala di bacino, si concentrino sulla specificità di un corso d’acqua ed evitino invece le teorie acritiche delle proprie scuole di pensiero. Sempre più spesso infatti, a proposito della vegetazione riparia, si scontra la fazione degli “ambientalisti” con quella degli “idraulici”, gli “ecologisti” con i “dinamici fluviali”. Il riverbero di questa contrapposizione, si riflette poi anche in fase decisionale.
Auspico quindi e rilancio attraverso il sito di Paolo, il ruolo del divulgatore scientifico. La popolazione genovese, ritengo, è ormai preparata, e, pur nella frammentarietà delle informazioni, conosce i particolari. Il salto di qualità si realizza mettendo assieme le conoscenze dei tecnici e il senso pratico delle persone, utile strumento per risolvere in maniera precisa un problema specifico.
5) Brancucci G. Paliaga G. (2008) “La geodiversità della Liguria come risorsa per il riequilibrio costa-entroterra”. In Calcagno Maniglio A. (a cura di) “Paesaggio costiero, sviluppo turismo sostenibile”. ISBN 978-88-492-1618-9, Gangemi Ed., pp. 125-134
5) Brancucci G. & Marini M. (1989) – Nuovi dati e considerazioni sulla “Paleofrana di Prato Casarile (Val Bisagno- Genova).” Mem. Acc. Lunig. “G. Cappellini” , Vol LVII-LVIII, Scienze Mat., Fis. Naturali , pp. 135-146
Foto di Paolo Rossi – Fotografo prossifoto@gmail.com
Testo di Stefano Brighenti – Naturalista (Laureato in Scienze Naturali)
stefano.brighenti85@gmail.com
La prevenzione del rischio idrogeologico può essere affrontata secondo due visioni. La prima comporta l’urbanizzazione selvaggia con la conseguente creazione del rischio e la sua successiva, necessaria se si vuole proteggere la pubblica incolumità, mitigazione tramite la costruzione di opere di regimazione idraulica (argini, plateazioni, tombinature come quella del Ferregiano, sbarramenti, etc.). Purtroppo tali infrastrutture si rivelano spesso inefficaci (vedi le ultime alluvioni del Bisagno) e danno la falsa illusione che costruire all’interno dell’alveo di un fiume possa essere saggio e sicuro. Lo schema è il seguente: l’urbanizzazione selvaggia e indiscriminata del territorio comporta un’ eccessiva impermeabilizzazione del suolo. Il terreno non può più filtrare in maniera efficace l’acqua piovana, la quale conseguentemente viene quasi totalmente convogliata repentinamente verso valle. Il tempo di corrivazione (quello che impiega ciascuna goccia di pioggia ad arrivare dai versanti al mare) si riduce in maniera esponenziale. “Troppa acqua tutta insieme” viene dunque incanalata verso il fiume il quale, ridotto sostanzialmente a un tubo di cemento a causa dell’uomo, si ingrossa con il rischio di straripare distruggendo con la sua furia distruttrice tutto ciò che incontra. La velocità della corrente è elevatissima perché la vegetazione riparia precedentemente estirpata per lasciare spazio ai nuovi quartieri accanto al fiume non può più attenuare il flusso dell’acqua e l’attrito che la scabrezza dell’alveo avrebbe potuto esercitare è ridotta quasi a zero dalle rettificazioni e dalle arginature: l’acqua non ha freni e, soprattutto, presenta una forza distruttrice centinaia di volte maggiore rispetto a quella che avrebbe in condizioni naturali! Se a questo si aggiunge la presenza di edifici e infrastrutture all’interno di quello che una volta era l’alveo del fiume (l’area all’interno della quale il corso d’acqua divaga alternando fasi di magra e di piena) la situazione diventa ancora più rischiosa. Aggravata dal fatto che le opere di regimazione sono spesso sottostimate, in un contesto ambientale in peggioramento, in cui la cementificazione del territorio (che aumenta la quantità di acqua che tutta insieme fluisce a fondovalle) è sempre maggiore e i cambiamenti climatici stanno comportando sempre più l’aumento in frequenza e in intensità dei fenomeni estremi (compresi i nubifragi).
Tuttavia esiste un secondo approccio, sicuramente più virtuoso, secondo il quale il rischio va affrontato non tramite cure palliative, caratteristiche di un ciclo vizioso che potremmo definire cemento-distruzione-cemento, bensì con la prevenzione. Anzitutto ponendo freno a un’urbanizzazione selvaggia consentita da piani regolatori scellerati e criminosi che, come si è visto, ha come effetto finale il convogliamento verso valle di troppa acqua in troppo poco tempo. Lasciando una sufficiente quota di versante in condizioni naturali o semi-naturali si può infatti consentire al suolo, ai boschi e alle coltivazioni l’intercettamento dell’acqua e il suo trattenimento nel terreno, con una graduale restituzione di parte dell’acqua piovuta sul lungo periodo (il che, peraltro, rappresenta anche una strategia di prevenzione della siccità nei periodi secchi). Inoltre, (sembra banale e facile da capire ma a quanto pare non lo è per molti) bisognerebbe evitare di costruire all’interno dell’alveo! Il fiume è infatti un sistema dinamico che vede l’alternarsi di fasi di piena e di magra, secondo oscillazioni anche ultradecennali. Lasciare al torrente la possibilità di espandersi durante le piene ordinarie e straordinarie comporta durante questi eventi la riduzione della velocità della corrente nelle zone esterne, anche per effetto della presenza della vegetazione riparia. Questa infatti svolge un ruolo chiave, non solo nella purificazione dell’acqua, ma anche nella riduzione della sua velocità tramite l’attrito, esercitato anche dalle imperfezioni dell’alveo come la presenza di grossi massi: sono tutti ostacoli che riducono la velocità della corrente rendendo meno devastante la sua potenza distruttrice. La diversità dell’ambiente è fondamentale anche perché favorisce la biodiversità. Infatti in alveo le infinite specializzazioni che i differenti organismi hanno rispetto alla corrente e al tipo di fondale comporta il loro stabilirsi solo se le condizioni dell’habitat lo consentono. Inoltre la zona riparia integra, oltre a rappresentare un rifugio per i pesci durante le piene, può ospitare una grande varietà di organismi tra i quali anfibi, rettili, mammiferi e uccelli che dipendono dal fiume per l’alimentazione e i ritmi biologici.
Anche secondo la Commissione Europea l’estirpazione della vegetazione riparia, le canalizzazioni, la cementificazione del territorio e degli alvei sono inadeguate per una corretta governance delle risorse idriche, che come tutte le risorse naturali (Millenium Ecosystem Assessment, 2005) sono fonte per l’uomo di servizi esosistemici (depurazione, approvigionamento, difesa idraulica e idrogeologica, etc.) che possono essere preservati unicamente garantendo l’integrità ambientale. Tale approccio è stato recepito anche in Italia con la recente approvazione del Collegato Ambientale (“Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”).
Secondo l’IPCC nel contesto storico in cui viviamo i mutamenti climatici stanno determinando l’incremento del rischio idrogeologico (attraverso la regressione dei ghiacciai e del permafrost, l’aumento di frequenza e intensità degli eventi atmosferici estremi, etc.). L’adattamento al Global Change è una priorità a livello comunitario e nazionale e risulta chiaro che l’approccio adottato finora con le politiche di gestione del territorio non sia adatto ad affrontare questa importante sfida. Se si considera che solo in Italia nel 2014 (ISPRA) i soldi spesi per le emergenze sono 7 volte maggiori rispetto a quelli spesi in opere di prevenzione, è evidente che il nostro rapporto con l’ambiente non è sostenibile sul lungo periodo.
Sempre più numerose realtà nel Mondo e in Europa stanno seguendo le indicazioni della Commissione Europea (si veda il sito ufficiale www.nwrm.eu). Alcune scelte possono risultare impopolari, come ad esempio la delocalizzazione dei quartieri costruiti in zona perifluviale o piani urbanistici oculati che, inibendo la costruzione di nuove case, sono accusati di rallentare l’economia (forse su cosa si debba basare la nostra economia non ce lo chiediamo mai!). Altre scelte invece, come la rinaturalizzazione dei fiumi e la creazione di zone verdi, sono meglio accolte dalla popolazione perchè è ben evidente l’impatto positivo sul benessere della città e dei suoi abitanti. Che siano maturi i tempi per portare anche nella nostra vituperata e amata città questi temi? Perchè non affrontare finalmente un serio dibattito sul benessere del nostro territorio?
Foto di Paolo Rossi – Fotografo prossifoto@gmail.com
Testo di Stefano Brighenti – Naturalista (Laureato in Scienze Naturali)